Revista Temas de Derecho Constitucional

115 Lo straniero come “ospite”: riflessioni a partire dal caso italiano A ciò deve aggiungersi quanto detto sopra, in relazione alle diverse condizioni degli stranieri che vengono in relazione con l’ordinamento italiano: così, ad esempio, vi sono coloro che sono titolari di protezione internazionale (rifugiati o titolari di protezione sussidiaria); coloro che hanno un permesso di soggiorno; coloro che non hanno alcun titolo per soggiornare sul territorio. Si possono dunque immaginare alcuni cerchi concentrici secondo i quali i diritti e le prestazioni (che sostanziano il “contenuto dell’ospitalità”) vanno ad ampliarsi progressivamente in ragione dello status della persona. In definitiva, dunque, possiamo dire che anche sul versante dei diritti la condizione degli ospiti non è omogenea né tantomeno uniformemente definita: come peraltro è giusto che sia (anche all’interno di ciascuna famiglia non tutti gli ospiti sono uguali…), purché nel rispetto di un contenuto minimo di tutele, sotto il quale non si può parlare di ospitalità. Per quanto riguarda invece la dimensione dei doveri, dovrebbe essere considerato scontato ritenere che anche chi è ospitato è tenuto al rispetto delle Costituzione, ed in essa del principio di solidarietà, che comporta l’adempimento dei doveri inderogabili stabiliti dalla Costituzione stessa, in modo diretto ovvero attraverso la riserva di legge posta dall’art. 23 Cost. Anche su questo punto il dibattitto politico e mediatico che si è sviluppato nei Paesi occidentali ed anche in Italia risulta talvolta fuorviante, quando si afferma che gli stranieri devono rispettare le leggi del Paese in cui sono emigrati: come se ciò non fosse un presupposto scontato e indiscutibile (salvo accertare e punire le violazioni, che è aspetto evidentemente diverso e che non riguarda soltanto gli stra- nieri). Piuttosto, il problema è costituito dalla misura in cui, come ad esempio stabili- sce la “Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione”, di cui subito si dirà, essi devono anche rispettare “i valori su cui poggia la società” italiana: punto assai delicato e discutibile, sia per ragioni di carattere generale e teorico (integrazione non significa assimilazione, né ospitalità può richiedere rinuncia alla propria identità) che per ragio- ni di carattere più pratico (quali sono questi valori? come se ne accerta il rispetto? con quali conseguenze? ecc.). A tal proposito, la Corte di Cassazione (sez. I, sent. 15 mag- gio 2017, n. 24048, Singh) ha affermato che “se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. È quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale , in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giu- ridico che la disciplina” (corsivo aggiunto). Vale, anche per tale affermazione, quanto appena detto in relazione alla Carta dei valori: «il giudicare “per valori”, per loro natura mutabili nel tempo e nello spazio, è un modo di procedere refrattario a oggettivi criteri regolativi e delimitativi, a maggior ragione lo è nel caso di specie, attesa la assoluta vaghezza di quei “valori occidentali” cui l’immigrato sarebbe tenuto a conformarsi»(Ne- gri, 2017). Possiamo, alla luce di tutto questo, formulare una conclusione sul punto. Se i “valori” di cui si parla sono contenuti e “tradotti” nelle forme proprie delle regole giuridiche e normative, l’osservanza di queste ultime deve considerarsi sufficiente anche ai fini del

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